Se andate su Google e digitate Me and Orson Welles, il titolo dell’ultimo film di Richard Linklater girato all’inizio del 2008 ma arrivato solo adesso su (pochissimi) schermi Usa, vi imbatterete nel grido di dolore dei fan italiani dell’interprete Zac Efron. «Vogliamo vederlo anche qui», implorano, ma le speranze sono poche. Se il film ci ha messo tanto a uscire negli Usa, dove Efron è un piccolo dio (con la serie disneyana tv High School Musical ha rubato il cuore a tutte le ragazzine), figuriamoci da noi. Già, ma perché ci sono voluti quasi due anni - un’eternità - per portare nelle sale una pellicola interpretata da un divo di massa e diretta da un regista di culto?
Dicono che il produttore chiedesse molti soldi, che nessuno glieli ha dati e che alla fine, per non buttar via il film, si sia dovuto pagare da solo la distribuzione. Va bene, ma come mai nessuno gli ha dato i quattrini che chiedeva? A braccio, dopo avere visto Me and Orson Welles, la risposta sembra semplice: è un film troppo colto, troppo raffinato per scalare il box office. Non basta neppure Zac Efron per portare le sue ammiratrici a vederlo. Insomma, il produttore ha fatto male i suoi calcoli, ed è un gran peccato: il pubblico di Me and Orson Welles non coincide con i fan del giovane idolo, ma ad accontentarsi di numeri più bassi - e di intelligenze più alte - esiste, eccome.
La trama, in breve, è duplice: c’è la storia del diciassettenne Richard (Efron), studente sognatore, che riesce a infilarsi con una particina nella produzione teatrale del Giulio Cesare di Orson Welles agli esordi (siamo nel 1937, il genio ha solo 22 anni) e c’è la storia dello stesso Orson (Christian McKay) che gioca il suo destino su quella regia (reduce da un’esperienza tempestosa col teatro pubblico, Welles ha appena fondato la sua compagnia, il Mercury Theatre, e l’esito del Giulio Cesare, in panni moderni e ambientato in una Roma mussoliniana, significherà la vita o la morte dell’impresa).
La trama, dicevamo, è duplice, ma non nelle intenzioni di Robert Kaplow, autore del romanzo da cui il film è tratto. Per Kaplow, che ha contribuito alla sceneggiatura, il racconto ruota attorno a Richard, alla sua esperienza esaltante e umiliante insieme (l’esorbitante Orson è un mostro di egoismo sopraffattorio). Nel corso delle riprese, però, le cose sono cambiate, come se perfino nella finzione post mortem Welles non potesse tollerare d’essere meno che un protagonista.
Possibile candidato all’Oscar, lo sconosciuto britannico Christian McKay - un Welles semplicemente formidabile, dalla naturale somiglianza fisica alla sovrannaturale aderenza psicologica - ruba sempre la scena al bellissimo Zac, lo costringe a una parte da comprimario non prevista dal copione. Zac ammirevolmente non si ribella e si lascia sopraffare, salvo strizzare l’occhio agli spettatori e promettere: «Sarò di nuovo con voi fra poco. Volevo solo farvi vedere che sono un attore completo». E ha ragione, la sua performance è liscia e «easy», equilibrata ma un filo sopra le righe come ci si aspetta da un ragazzo molto sicuro del proprio fascino (nella realtà e nella finzione: il piccolo Richard punta in alto e sfida il grande Orson per l’amore di una donna, accorgendosi troppo tardi che le regole, a teatro, non sono cavalleresche).
In America, si legge, la maggior parte delle persone che vanno al cinema neppure si ricorda chi sia stato Orson Welles. Quanto al numero di chi ha visto un dramma di Shakespeare, le cifre diminuiscono ancora. E in Italia? I dati non divergono. Così un film come Me and Orson Welles finisce per assomigliare a una scommessa stupida: chi vuoi che lo voglia? Da una parte i produttori ottengono i soldi per produrlo mettendo sul piatto il nome di una star come Efron; dall’altra, a operazione conclusa, i distributori neppure di lui si fidano e il film resta fermo. C’è qualcosa che non funziona in un sistema di questo genere, ma rimetterlo a posto non è facile. Non basta la generosità di un divo che cerca di uscire dal proprio cliché (Zac Efron) né di un attore che cerca di diventare un divo (Christian McKay) né di un regista che sa fare film intelligenti (Richard Linklater). In attesa di rivolgimenti, aderiamo all’appello dei fan di Zac: fatecelo vedere. Anche se noi, occultamente, tifiamo per Christian McKey.
Fonte: http://www.lastampa.it
sabato 2 gennaio 2010
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